IL  BIANCONIGLIO
AUTORITRATTO

AUTORITRATTO

PROGETTO CREATO DURANTE IL LOCKDOWN, ABITARE UNO SPAZIO. NOI STESSI.

CHI HA IL CORAGGIO DI ENTRARE NELLE PROPRIE STANZE?

CHI HA IL CORAGGIO DI ENTRARE NELLE PROPRIE STANZE?

L’INVOLUCRO È SPECIALE QUANTO CIÒ CHE PROTEGGE.

UNA FOTOGRAFIA CHE QUASI SI AUTOREGISTRA COME UN PENSIERO.

L’opera di Alessandra Rigolin si inserisce nell’ambito dell’autorappresentazione, in cui l’artista diviene soggetto esclusivo delle sue opere.

Partendo dall’esperienza della fotografia, Alessandra rivolge progressivamente l’attenzione su un’indagine interiore che comporta una progressiva rielaborazione concettuale e tecnica fino a concepire negli esiti più recenti l’idea di opera totale che vede l’impiego di diversi media.

 

In linea con un particolare filone della fotografia contemporanea, la fotografa interpreta l’autoritratto come indagine sul sé considerando il rapporto delicato e talvolta controverso tra la propria immagine e la propria identità.
 Attraverso l’autorappresentazione attua un processo non solo cognitivo, ma anche emozionale e relazionale indotto dallo sdoppiamento tra la parte che osserva e quella osservata e dalla coincidenza tra l’io soggetto-spettatore e l’io oggetto-rappresentato. In questa situazione l’interesse della ricerca si focalizza su tutto ciò che accade nella sfera dell’interiorità.
Alessandra Rigolin ripercorre le tappe della formazione dell’io, portando in superficie e rielaborando le ansie correlate al senso della propria identità. In tal modo la sua opera si configura come una interrogazione, un gioco speculare in cui si prende coscienza della dimensione fisiognomica del proprio io e di un’immagine corporea non sempre coincidente con quella mentale. La consapevolezza del rapporto interdipendente e a volte contraddittorio tra il corpo-involucro e l’interiorità dell’io spinge Alessandra a guardare il proprio passato attraverso la capacità analitica del mezzo fotografico. Nelle sue opere il soggetto quindi diviene progressivamente oggetto da fotografare e quindi da padroneggiare.
Già nelle serie With me, Matrioska e Caduta libera, l’artista si pone in sincero dialogo con se stessa, riscoprendo quello che è stata in un continuo intreccio tra ricordi, desideri, aspettative, delusioni, riappropriandosi del proprio corpo e del proprio io. Il susseguirsi degli scatti fotografici frantumano la complessa realtà della sua persona, quasi a volere vedere con occhio esterno gli aspetti più nascosti della propria esistenza. L’immagine del corpo o del volto occupa uno spazio ristretto, tanto che a volte sembra compressa, soffocata, chiusa nei margini del campo visivo. Emerge chiara la volontà di “ripiegarsi” su se stessa, di immergersi nel proprio io, quasi attraverso uno stato di “soffocamento”. “Bisogna morire per vivere”, immergersi nella propria esistenza fino ad arrivare al confronto diretto con le esperienze più dolorose per poi ritrovare se stessi, “l’unica vera bussola”.
La fotografia quindi diviene lo strumento iniziale di indagine che permette un processo di destrutturazione/mediazione/ridefinizione della propria identità.
Si tratta di un percorso che si sviluppa in parallelo all’acquisizione di una maggiore consapevolezza delle potenzialità e dei limiti tecnici per giungere alla sperimentazione e alla contaminazione di diversi media, in modo da veicolare e trasmettere il messaggio sempre più chiaramente.
Così nella serie Stanze, Alessandra Rigolin interviene direttamente sulla propria immagine strappando manualmente le fotografie, sezionando e ricomponendo le parti del corpo e del volto, sottolineando ed esplicitando la necessità della rottura per entrare nelle proprie “stanze” e tentare di riportare ad unità, per quanto aperta e problematica, la molteplicità dell’identità. Tale ricerca si sviluppa e trova la sua piena continuità nell’azione della performance e della rappresentazione teatrale, nell’intento di giungere a quel totale coinvolgimento che si attua nell’identificazione tra artista e opera d’arte. (Roberta Gubitosi)